Ripartire dalle parole: incerte, ma questa volta insieme. A cura di Carolina Gandolfi

Lavoro nella scuola come psicoterapeuta da molti anni.
In questo periodo mi ero ripromessa di scriverne: ero motivata nel raccontare quello che ho visto succedere durante il lockdown nel mio lavoro a distanza con insegnanti e ragazzi.
Poi la scuola è ricominciata, a settembre, in mezzo a incertezze, preoccupazioni, proclami, sacrosante rivendicazioni e polemiche sterili. E la voglia di dire la mia è scomparsa.
Perché a scuola, per fare scuola, per essere scuola, ci vuole anche silenzio. E ascolto. Questo pensavo.

Oggi ricomincio nello stesso istituto dove lavoravo lo scorso anno. Incontrerò, di nuovo a distanza, un gruppo di insegnanti.
Mi hanno raccontato di essere alle prese con conflitti faticosi da gestire nella loro seconda media e con le difficoltà per questa classe di “fare gruppo”. Essere gruppo è faccenda complicata già di per sé, per tutti. Grandi e piccoli. Ma stamattina mi domandavo: dopo quello che c’è stato abbiamo già qualche idea di cosa significa per questi ragazzi? E per noi, anzi, prima ancora?

Io ho conosciuto questa classe ad aprile, in pieno lockdown, ciascuno da casa propria, alle nove di mattina, qualcuno sveglio, qualcuno ancora con gli sbadigli sul volto, qualcuno con tanta voglia di dire la sua, qualcuno manco sotto tortura; con i cellulari di molti debitamente occultati ma a portata di mano, a commentare quello che accadeva, o parlare di tutt’ altro per combattere la noia; con qualche mamma e qualche papà di tanto in tanto sullo sfondo, curiosi forse di sbirciare dentro lo schermo, o in punta di piedi ad attraversare spazi privati dei figli diventati improvvisamente condivisi.
Con loro ho parlato della classe. Ho chiesto come la vivessero, come si trovassero. Classe nuova, conosciuta a settembre e vissuta di persona solo qualche mese.
Ho ascoltato poca libertà e confidenza nel dirsi le cose, qualche accusa reciproca su fatti accaduti di recente, qualche esplosione di rabbia, molti silenzi, e tante parole belle, quelle giuste da dire, quelle che forse ci sia aspetta che siano pronunciate: “rispetto”, “altruismo” , “collaborazione”, “unione”.

E poi, uno di loro, ha parlato davvero.
Ecco, quelli sono i momenti in cui mi ricordo perché amo questo lavoro con i ragazzi, i momenti in cui mi ritrovo spettinata e inchiodata alla parete dietro di me, con un piacevole stordimento.
Sono i momenti in cui mi ricordo, una volta di più, che il nostro compito non è riempire di parole sensate i loro silenzi e le loro azioni.
Parole che hanno a che fare con la nostra di esperienza. Perché noi ci siamo già passati. Perché noi sappiamo come può essere difficile, anche, e vorremmo alleviargliela quella fatica nello stare insieme.
Ci fa sentire utili, questo, probabilmente. E poi senz’altro, da adulti, vorremmo aiutarli a stare meglio di come noi siamo stati da adolescenti. Perché quelle emozioni ce le abbiamo ancora dentro, più vive di quanto speriamo.

Poi ci sono i momenti come questi a ricordarmi che le nostre sagge parole non possono essere che incomplete, fragili, provvisorie. Anche per noi.
Quei momenti in cui un dodicenne apre bocca e invece che dire quella che ormai sa essere la cosa giusta da dire, invece che farsi portavoce apatico di una frase che i suoi genitori, e tutti gli adulti intorno, me compresa, temo, gli hanno ripetuto allo sfinimento nelle sue infinite variazioni possibili, invece che tutto questo, parla. Dice la sua.
Ecco, di solito sono cose scomode, difficili da sentire per noi adulti e spesso da dire per lui o lei, se non si ha una buona dose di provocatorietà a volte ancora incerta a quell’età.

“Ma quale gruppo? Quale classe?
In questo momento non mi interessa la mia classe.
Mi interessa di me, mi interessa come stanno i miei nonni, e i miei amici che non vedo da due mesi. Sono altre le cose che ho in testa”.
E dopo di lui, una lunga eco di voci: “E’ da febbraio che siamo in casa, soli, che ci vediamo solo davanti ad uno schermo, e nemmeno tutti. E prima non abbiamo avuto nemmeno il tempo per conoscerci.
Come si fa a parlare di classe?”
Sbam!
“E di cosa vorreste parlare? Quali sono le cose che vi interessano, ora?”
“Io ho paura. Ho paura per mio nonno, che esce senza stare troppo attento, anche noi continuiamo a dirglielo che è pericoloso”, “Anche io ho paura, per mia mamma che vede tutti i giorni i malati di covid. Lei dice che ha le protezioni, e le mascherine, ma io ho paura lo stesso”. “Mio nonno è morto quindici giorni fa. Non lo sa quasi nessuno, e non abbiamo potuto fare il funerale”. ““Mi dispiace, non lo sapevo”. “Nemmeno io lo sapevo. Condoglianze”. “I morti sono 500 al giorno, ancora adesso. Sono ancora tanti”. “Mia nonna è in ospedale, ora; i miei genitori mi dicono che sta meglio, ma io non lo so se è vero”. “A me mancano i miei amici. Voglio fare una partita di calcio”, “Anche io sono stanco, voglio uscire. Dicono che sono fortunato, perché ho il giardino, è vero. Ma voglio fare un giro in bicicletta di quelli che non finiscono più. Ormai ho fatto il solco nel cortile” “Beato te che ce l’hai il cortile. Anche se poi, da solo, non so se saprei cosa farci. Io mi annoio, tantissimo”. “Sì, noia, tantissima noia”. “Anche io mi annoio. Noia mortale”. “A me invece piace stare a casa perché ci sono mio fratello e i miei genitori. Non li vedo mai di solito. Mio fratello è grande ed è sempre fuori, di solito, e loro prima lavoravano tutto il giorno”, “I miei però sono preoccupati di perdere il lavoro”, “Mia mamma lo ha già perso, e non sarà facile trovarne uno nuovo” Io però a casa ho anche scoperto che so fare cose che non sapevo” “Tipo?” “Tipo disegnare. Non ci avevo mai provato, e mi sono accorto che sono capace. Ho disegnato un fumetto, cioè l’inizio, per ora” “Anche io, anche io! Ho superato un livello alla play su cui ero bloccato da un sacco di tempo. Si può dire, questo?” “Io ho scoperto che mi piace leggere. Ho letto tanti libri. Ma non quelli che mi danno a scuola. Però mi annoio lo stesso. Le giornate sono lunghissime” “A me manca la routine di prima, tra scuola e allenamenti..” “Sì, ma lo svegliarmi presto, quello non mi manca”, “Io adesso vengo a lezione in pigiama, quasi; mi sveglio dieci minuti prima dell’inizio”, “E prima invece arrivavi sempre in ritardo in classe!!”. “Sì, però io a scuola vorrei tornarci”, “Anche io. Non lo avrei mai detto!”. “Io no. A me va bene così. Perché facciamo molto meno, così” , “Beh, non è vero. Abbiamo lo stesso un sacco di compiti”, “Ma molti meno, dai..” “Ma solo perché i prof sono stati più buoni”, “Prof, potreste continuare ad essere così buoni anche quando torniamo a scuola?” “ A me non mancano le interrogazioni in classe. Quelle mi facevano venire un sacco di ansia, da qui a casa molto meno”, “Neanche a me ma mi manca l’intervallo, vedere quelli delle altre classi che erano con me alle elementari”. “Chissà come sarà tornare a scuola. Con le mascherine. Cinque ore con le mascherine!! ma io soffoco”. “Ma quando torniamo a scuola, prof?”, “Io non ci voglio pensare, a settembre. Tanto non si sa come sarà. Non voglio farmi speranze che poi ci rimango male”.

Ecco, a scuola ci sono tornati, loro.
Nell’incertezza quotidiana di non sapere fino a quando. E così ho pensato che piuttosto che scrivere io potevo farmi portavoce di tutto questo.
Perché da queste parole occorre ripartire. Da questa esperienza potente, concreta che tutti ci ha in vario modo coinvolti e che non è finita; esperienza che non è un capitolo da lasciarsi alle spalle come una parte di noi, più o meno consapevolmente, forse sperava.
Esperienza che di tempo di elaborazione ne ha avuto ancora poco. Esperienza che penso sia necessario trovi un modo di essere narrata, prima di tutto a noi stessi, anche nel suo divenire.
La sfida e la possibilità che abbiamo è quella di scoprire insieme, grandi e piccoli, cosa ha fatto succedere a noi stessi, alle nostre relazioni, allo stare in classe, in gruppo, quello che abbiamo vissuto da marzo in poi e che stiamo ancora vivendo nell’incertezza del presente.
Per trovarne altre di parole incerte, stavolta insieme.
Perché stavolta temo che davvero non lo sappiamo nemmeno noi grandi come si fa a passarci attraverso indenni.

Carolina Gandolfi, medico psicoterapeuta