Articolo a cura di Simona Montali, presidente de Il Ruolo Terapeutico di Parma.
I bambini desiderano cose strane: avere le scarpe che brillano, mangiare zucchero filato a colazione, ascoltare la stessa storia tutte le sere.
Anche i grandi hanno strane idee in testa: farsi il bagno tutti i giorni, cucinare i fagiolini al burro, dormire senza il cane giallo.
“Ma come si fa?” – chiedono i bambini.
Tratto da Che cos’è un bambino di Beatrice Alemagna
Sembra una domanda banale, ma credo non lo sia tanto.
Bambino ha varie accezioni, si è bambini a 1 mese, si è bambini a 10 anni.
Credo sia molto diffusa l’idea che un bambino diventa tale quando comincia a capire, e comincia a capire spesso è sinonimo di comincia a parlare, come se la comunicazione verbale fosse lo spartiacque fra esistere e non esistere come persona.
Questo preconcetto che trovo spesso negli adulti, è accompagnato dall’idea che prima dell’ anno di vita il bambino non sia in grado di comprendere ciò che accade intorno a lui, che non abbia nessuna idea del tempo, che non abbia memoria, che abbia bisogno di essere accudito, certo, con amore, certo, ma che sia del tutto inconsapevole.
C’è l’idea che è bene che i bambini non assistano a discussioni o litigi dei grandi, che il clima di tranquillità nel quale vive sia per lui importante, ma in una accezione generica, e ad esempio il parlare di lui e dei suoi “difetti” in sua presenza o dare libero sfogo alle rabbie che un capriccio può far scatenare nei grandi, siano cose normali che capitano, peccati veniali. Non sto a dire che siano colpe, ci mancherebbe, ma fermarsi un attimo a pensare credo sia sempre utile.
A proposito di capricci, quante volte un adulto etichetta come capriccio un evidente dissenso del bambino in una determinata situazione, tipo un pomeriggio al supermercato? È come se ci affidassimo totalmente alla certezza che l’amore dei genitori per il bambino è scontato, e tutto quello che avviene è dettato da un codice interno, il nostro modo di percepire il piccolo. Grande verità, se però si tiene conto che c’è anche l’adulto con i suoi bisogni e le sue difficoltà in questa relazione così particolare che è quella fra genitore e figlio. E’ una relazione a due. Non esiste una relazione se non ci sono due persone a crearla. E la relazione non è possibile che sia sempre perfetta.
La relazione si costruisce, non si forma da sola, la relazione non è frutto di istinto o spontaneità soltanto. Ha bisogno di cure e di tempo, non è possesso, è presenza. Ed è unica, ogni relazione è unica ed irripetibile, come le persone che la creano.
La relazione cambia le persone, perché modifica, scardina, crea mondi nuovi. È preziosa e difficile. Ed il grande, il genitore, la Tata, l’insegnante, il nonno…..hanno per il loro ruolo la grande responsabilità di guidare quella relazione, tenendo conto del piccolo, che ha i suoi perché, sempre: non c’è un gesto, un rifiuto, un sorriso, un capriccio che non abbia un senso, la difficoltà è che non sempre siamo in grado noi grandi di comprenderne il significato, ma è già molto importante se pensiamo che il senso ci sia. Cambia però il come teniamo dentro di noi quel bambino: non è capriccioso, è disturbato da qualcosa che non sappiamo decifrare. E quindi quel piccolo urlante che ti fa salire una rabbia terribile, perché è tardi, perché non hai tempo, perché chissà cosa pensano quelli che sentono, diranno che non so educare mio figlio, che non sono una brava madre, ma più di così cosa devo fare….quel piccolo urlante ti sta dicendo che per lui qualcosa non va, ma vai a capire cosa! Ma non ti sta accusando, cerca di farti capire che lui non lo sa cosa non va, che si affida a te per cercare di capirlo per lui, che lui si fida, altrimenti se ne starebbe zitto, non comunicherebbe. È una comunicazione la sua, confusa, incasinata, ma è capace solo così.
Un bambino, piccolo, pochi mesi. Spesso non sappiamo chi abbiamo davanti. E non sappiamo come tradurre nella nostra lingua e nei nostri pensieri i mille discorsi che il bambino, molto piccolo, fa. Spesso, perché non ci fermiamo a osservare. Spesso, perché osservare e contattare le emozioni che questo approccio scatena in noi ci parla di un qualcosa che abbiamo dentro ed abbiamo dimenticato, ma è sempre molto presente, perché non siamo mai del tutto “grandi”, per fortuna. La mamma e il suo neonato, insieme costituiscono la base per una crescita, di entrambi.
Daniel Stern è un autore che si è occupato molto di osservare coppie madre/bambino nel loro ambiente, per capire cosa e chi sono, sia l’una che l’altro.
Quello che succede fra i due l’ha chiamata danza. Trovo sia molto bello, e molto vero. Seguendo le sue osservazioni ed i suoi studi di antropologia, psicologia clinica e sperimentale, neuropsichiatria, etologia, ha costruito una ipotesi teorica sullo sviluppo psicologico del bambino. La sua teoria è complessa e ben strutturata, la trovo affascinante e provo a sintetizzarla in poche righe: gli anni più importanti per la vita di noi tutti sono i primi due anni di vita, tempo che permette al neonato, attraverso dotazioni innate cui corrispondono dotazioni innate della mamma, di rendersi conto di esistere come un sé attraverso l’esistere dell’Altro esterno a sé, per poi arrivare a voler condividere scoperte, emozioni, suoni, fino ad arrivare alla parola, il massimo desiderio di condivisione.
La danza è questo gioco di eccitazioni, stimolazioni, silenzi, rimandi, simultaneità imperfette, sospensioni…proprio come una danza di due ballerini che seguono un’armonia. Ma ci deve essere un’armonia che fa da sfondo alla danza, non si può danzare con una musica dodecafonica. I canali attraverso cui si formano i vari progressivi stadi del Sé, rimangono aperti tutta la vita, e ad un certo punto funzionano in cammini simultanei.
Ogni bambino è diverso dall’altro; di qualcuno si dice “è più maturo della sua età” oppure il contrario. Ognuno ha i suoi tempi, e se i tempi sono statici, se ci sono disturbi o difficoltà, c’è come un arresto di crescita o un ritorno a modalità precedenti, regressive.
Le linee del Sé sono state ripercorse all’indietro, va guardato cosa è capitato, perché è successo, senza paura. Si può aiutare il bambino a rimettersi in marcia, ma c’è bisogno di qualcuno che danzi di nuovo con lui. Può essere la mamma, il papà, può essere un’insegnante, una tata, uno psicoterapeuta. Ecco, l’esperto, il cosiddetto esperto.
Il ruolo dello psicoterapeuta infantile non è quello di aggiustare un oggetto rotto, ma di accompagnare i genitori a osservare, guardare, riuscire a vedere e a tradurre ciò che il loro bambino, che loro hanno visto in difficoltà, sta loro dicendo con i sintomi che ci mostra. Sono richieste d’aiuto, incapacità di leggere quello che sta loro succedendo, e voce per dire “sto male”. E si può imparare a danzare di nuovo, il terapeuta infantile che faccia bene il suo lavoro, secondo me deve essere un ottimo insegnante di danza vitale. E se appena appena è fattibile, sono i genitori che devono imparare di nuovo o da capo a danzare, col nostro aiuto.
Altri Autori hanno elaborato altre teorie; molto interessante quella di Margaret Mahler, che ipotizza, anche qui partendo da osservazioni molto prolungate nel tempo di un gran numero di coppie madre-bambino da 0 a 3 anni , che il neonato inizialmente sia tutt’uno con la mamma, in una stretta simbiosi, essenziale per il piccolo, ma da cui lentamente in diverse fasi successive e interconnesse le une alle altre, deve e vuole emergere; si individua e diventa una persona differenziata, un “Altro” rispetto alla madre. Quando questo non avviene o quando c’è una difficoltà in tal senso, si sviluppano “patologie” che non sono altro che disagi, difficoltà di crescita che non si trovano solo nel bambino, spesso anche negli adulti, con modi e manifestazioni differenti. Crescite disarmoniche, in cui una parte di sé procede verso la propria crescita, ed una parte indugia per bisogni e desideri insoddisfatti, senza strumenti sufficienti per evolversi. C’è però sempre un perché. La parte più utile per me di questa teoria è proprio l’individuazione, sempre ipotetica, di fasi di sviluppo dove si tiene conto della coppia madre-bambino, cui corrispondono comportamenti differenti e bisogni differenti. La definisco utile, perché nel mio lavoro di psicoterapeuta infantile, tenendo presente questo continuum di fasi di crescita, riesco a individuare idealmente il momento in cui la linea di sviluppo ha cominciato a deviare, e a ricominciare insieme al piccolo ed ai suoi genitori da lì. Essere là dove il paziente è, questo è un imperativo che nel mio lavoro estendo a tutte le età anagrafiche.
Le teorie sono importanti per poter fare da canovaccio che ci guida, l’importante che non sia sulla base della teoria che incontriamo la persona che si rivolge a noi, bambino, genitore, adolescente o adulto che sia, ma che l’incontro sia fra persone, con ruoli diversi.
I due autori cui vi ho accennato parlano sempre di coppia madre-bambino. Le osservazioni che hanno fatto, in effetti, sono state effettuate sulla coppia madre-bambino. Ma…e il papà? Oggi è profondamente cambiata la situazione, e sta cambiando rapidamente, almeno nel nostro mondo occidentale. Situazioni differenti avvengono nelle famiglie di migranti, ma qui il discorso si complica enormemente, i fattori in gioco sono molteplici, lasciamo stare! Nelle nostre città non è così difficile vedere papà in giro con la carrozzina, che si prendono cura del piccolo, anche nei primi mesi di vita, dandosi il cambio con la mamma nell’accudimento del figlio. Papà che si alzano di notte per cullarlo se piange, papà che cambiano pannolini o fanno il bagnetto al piccolo. Sono Papà che devono fare i conti con il ruolo diverso che hanno assunto nei riguardi della compagna, tutta presa com’è da quel profondo, intenso, tendenzialmente chiuso legame che si viene ad instaurare quando da dentro la pancia, il bambino nasce.
Per la mamma non è facile questo cambiamento, “dentro” non c’è più quell’entità scalciante che fa parte di lei: ora la pancia è vuota. Che liberazione, da un lato, che solitudine dall’altro! E il papà che era il compagno accudente, era il punto di riferimento, ora si vede scalzato da un piccolo essere esigente, cui la mamma dà tutte le sue attenzioni. Questo è uno degli scenari possibili, ce ne sono altri 1000, tanti quante sono le coppie! E il papà ha bisogno di superare il senso di esclusione, per diventare colui che accudisce, colui che protegge questa nuova coppia che si è venuta a formare sotto i suoi occhi. Ha bisogno di essere adulto. Ha bisogno di poter diventare anche lui un partner danzatore di danza vitale, in una posizione se vogliamo ancora più scomoda e difficile, dove i propri bisogni e desideri vanno gestiti e non negati. Non è difficile, nel mio lavoro, assistere a coppie in crisi, dopo la nascita del figlio. È capibile, un errore di valutazione, di aspettative. I figli sono fonti di grande cambiamento nella coppia. Nasce il piccolo, ma è all’interno di una di una relazione a due. Deve poter diventare una relazione a tre, e i ruoli cambiano, si moltiplicano, così come lo spazio relazionale all’interno del trio. Un tempo era diverso, i ruoli in famiglia erano molto ben separati. Oggi no. Ci sono padri salvifici, ci sono padri bambini, ci sono padri che se la cavano. E’ un ruolo difficile quello del padre, di importanza vitale fin da prima della nascita.
Nel mio lavoro, quando i genitori mi contattano perché vedono nel loro bambino qualcosa che li preoccupa, tengo sempre a precisare che posso fare qualcosa solo se i genitori, entrambi, si mettono in gioco, se entrambi sono disponibili a lavorare con me e con il piccolo. L’esperto, dico, non fa, insegna a fare, o meglio, insegna a riplasmare una relazione che in qualche punto della storia di loro tre si è andata sfilacciando; non colpe, ma difficoltà, ognuno le proprie, mamma, papà, bambino.
Ma siamo qui per parlare di che cos’è un bambino.
Credo che sia uno scrigno dove, più è piccolo, più siano contenute tutte le possibilità. I potenziali di ognuno di noi credo siano molto grandi, ma l’impatto con il mondo reale, rappresentato all’alba della vita dalle prime esperienze relazionali con le persone che accolgono la sua venuta al mondo, ha una incidenza molto grande sullo schiudersi delle possibilità, e questo vale per tutta la durata della vita. Si parla spesso di “carattere”. Credo che il carattere non sia congenito, del tipo “tale padre, tale figlio”, ma piuttosto il clima e le relazioni che abbiano determinate caratteristiche, possano influire sul temperamento del piccolo, quello sì innato, insomma, l’esperienza della realtà ambientale e relazionale agisce fortemente nello sviluppo di un determinato carattere. C’è poi in ogni essere umano che viene al mondo una maggiore o minore competenza a vivere, sia fisicamente che psicologicamente, come ho osservato durante i miei 20 anni in un reparto di neonatologia. Ogni neonato è diverso dall’altro, e reagisce in modo differente a ciò che gli arriva da fuori. Ma soprattutto c’è una innata diversa capacità di affrontare le difficoltà: ora vi parlo di sopravvivenza in un reparto di neonati prematuri. Molto spesso mi è capitato di vedere come a parità di patologia, la competenza a vivere fosse differente e portasse alla morte uno e all’aggrapparsi alla vita l’altro. Non è diversa la capacità di affrontare traumi psichici più o meno importanti. E nella crescita questi fattori si strutturano in modo differente. Ogni bambino è la combinazione, unica, di elementi innati, ambientali, relazionali, un universo, alla fine. E per fortuna queste peculiarità non si perdono nel tempo.
Non diventiamo persone diverse crescendo, una parte di noi, una sorta di memoria non cosciente, mantiene le nostre caratteristiche di base. Spesso lo dimentichiamo. Ma la stessa forza con cui impariamo a camminare, nonostante le cadute e le difficoltà, la ritroviamo più avanti, se vogliamo avere occhi per vedere. Come vedete, mi ritrovo sempre a parlare di bambini piccoli o piccolissimi. I primi anni di vita sono fondamentali per una crescita buona, e per buona intendo non “perfetta”, non esiste, ma sufficientemente buona da poter rendere possibile una vita serena, con tutti gli alti e bassi, tutti i dolori e tutte le gioie che inevitabilmente si incontrano.
Per prima cosa un bambino ha bisogno di essere visto e riconosciuto come unico. Ha bisogno di essere amato e per questo è necessario che impari a reggere le frustrazioni dei “no” e la soddisfazione dei “sì”, ha bisogno di limiti, non può essere lasciato solo a fare tutto quello che vuole, si sentirebbe sperduto, tanto quanto si sentirebbe se i “no” fossero troppi, dettati solo da non-motivazioni adulte.
Un bambino non è un sacco da riempire con nozioni, non è un “riscatto” per i genitori, né un “risarcimento”. Un bambino ha bisogno della fantasia, e il mondo salvifico della fantasia si crea solo se c’è qualcuno che lo accompagna in quel mondo e lo visita insieme a lui. E nella fantasia ci sono pure i mostri.
Un bambino ha paura, e le sue paure vanno accolte e guardate insieme a lui, mai sottovalutate o derise.
Un bambino ha bisogno soprattutto di relazioni sane, che non sono legacci, sono legami, ha bisogno di radici, ha bisogno di essere riconosciuto capace di capire le cose, ha bisogno di essere riconosciuto come persona da subito. Se le porterà dietro per sempre queste cose, faranno parte del suo “carattere”, del suo modo di stare al mondo.
Simona Montali